Stipendi: Padova 22esima in Italia, Veneto nona tra le regioni. I dati di Confapi
Il governo si è dato una priorità per la prossima Legge di Bilancio: confermare il taglio dei contributi pagati dai lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 35 mila euro lordi l’anno. Il costo della misura? Circa 10 miliardi. E, per rafforzarla, l’idea è di ridurre già da gennaio del prossimo anno le aliquote Irpef da quattro a tre, accorpando le prime due: in pratica il primo scaglione Irpef arriverebbe fino a 28 mila euro di reddito sui quali si pagherebbe un’aliquota del 23%. Ma qual è, oggi, la situazione degli stipendi in Italia? E cosa si può fare per aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori e rilanciare i consumi? A partire da queste domande Confapi, attraverso il suo centro studi Fabbrica Padova, ha messo in fila i dati a disposizione.
Per gli stipendi parlano le statistiche elaborate dall’Osservatorio Job Pricing, secondo le quali la RGA (Retribuzioni Globali Annue, risultato di retribuzione lorda più retribuzione variabile) media nazionale calcolata dal Geography Index 2023 sulla base dei dati del 2022 si attesta a 30.830 euro, circa mille euro in più rispetto ai 29.840 di dodici mesi prima. Il mercato retributivo del 2022, a partire dal secondo semestre, è apparso in netta crescita a confronto con un precedente periodo caratterizzato da una diffusa stagnazione degli stipendi: nel solo 2022 le retribuzioni complessive (fisse e variabili) sono cresciute in media del 3,3%. In questa graduatoria, Padova si situa al 22° posto tra le province in Italia, con una RGA media di 30.986 euro, lo 0,5% in più della media nazionale, in una classifica guidata da Milano con 36.952 euro e chiusa da Ragusa con 24.129 euro, 107^ tra le province italiane. Per quanto riguarda le regioni, nona posizione per il Veneto, con una RGA media di 30.848 euro, dello 0,1% superiore rispetto alla media nazionale, con la Lombardia a capeggiare la graduatoria (33.452 euro) e la Basilicata a chiuderla (26.055 euro).
A queste statistiche occorre però aggiungerne altre, diffuse dall’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in base alle quali si osserva come il cuneo fiscale in Italia, ossia - afferma Confapi - l’indicatore che misura la differenza tra il costo del lavoro per l’azienda e il salario netto che il lavoratore riceve effettivamente in mano, è uno dei più alti tra i paesi membri, attestandosi al 45,9% del costo del lavoro nel 2022, contro una media Ocse del 34,6%. In altre parole, significa che quasi la metà delle spese sostenute dalle aziende per impiegare un lavoratore sono destinate a tasse e contributi sociali, rendendo l’Italia poco competitiva rispetto ad altri paesi. A registrare valori più elevati dell’Italia sono solamente quattro paesi in Europa. In Belgio, imposte e contributi sociali rappresentano il 53% del costo del lavoro, mentre in Germania, Francia e Austria il dato è leggermente superiore a quello italiano (rispettivamente pari al 47,8, 47 e 46,8%). E proprio la riduzione del cuneo fiscale è stata indicata dall’Ocse come una delle principali sfide per il sistema economico italiano e rappresenta un obiettivo prioritario per il governo e le parti sociali, al fine di promuovere la crescita economica e l’attrazione degli investimenti dall’estero.
“Tutto ciò che va nell’ottica di aumentare il reddito dei lavoratori va visto con favore, soprattutto in questo momento di crisi dovuto al caro vita - commenta il presidente di Confapi Padova Carlo Valerio -. E tuttavia, l’impressione è che si parli di miliardi per le casse dello Stato ma, alla fine, di cifre poco significative per le famiglie. Il punto è che occorre mettere mano pesantemente all’intero sistema della tassazione sul lavoro. Occorre adottare politiche per cui ogni aumento e ogni premio possa essere applicato senza tasse aggiuntive, né per i datori che lo corrispondono, né per i lavoratori che lo percepiscono. Un’azienda non può pagare due volte l’aumento o il premio elargito e a sua volta il lavoratore non deve pagarci su altre tasse. Badate, noi imprenditori siamo disponibili a migliorare salari e stipendi, ma ci dev’essere data la possibilità di farlo con reale efficacia. Questo vale in particolare per le piccole e medie imprese, molto più radicate sul territorio e con un valore sociale maggiore rispetto alle grandi, che sono multinazionali e spesso e volentieri delocalizzano. La nostra è una realtà diversa: qui i titolari conoscono i dipendenti, con loro hanno un rapporto diretto. Ma per poterli pagare di più servono aumenti contrattuali decontribuiti e detassati. Tenendo ben presente che, con i salari bassi, non possono ripartire i consumi, che sono alla base di tutto il funzionamento dell’economia. Quegli aumenti saranno rimessi in circolo e finiranno comunque nelle casse dello Stato”.
“Un’ultima annotazione - aggiunge Valerio -, va fatta riguardo al cuneo fiscale: il confronto tra le varie Nazioni è utile, ma occorre anche valutare quali servizi vengono messi a disposizione dei cittadini in “cambio” dei soldi versati con le tasse e il livello di welfare effettivamente presente. Il cuneo fiscale in Italia è eccessivo perché i servizi non sono adeguati. Ed è anche a questo riguardo che dovremmo interrogarci nel momento in cui ci rapportiamo ai nostri competitor, perché, per capirci, se quei soldi finiscono per pagare le baby pensioni o simili “amenità” e non il welfare, è chiaro che i conti non tornano”.